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A proposito di corpo

    Masaki Iwana, danzatore ed insegnante nasce a Tokyo nel 1945.

    Dopo aver lavorato in teatro come attore, nel 1974 diventa danzatore e viene riconosciuto nella cosidetta scuola di buto creando una propria linea individuale di ricerca. Dal 1979 al 1984 presenta una serie di 150 spettacoli sperimentali da solista basati sulla nudità ed immobilità. A partire dall’esperienza francese di La Chartreuse Summer Festival di La Chartreuse Villeneuve Les Avignon nel 1983, io suo stile acquista una profondità filosofica. Nel 1990 crea a Patigi un centro di ricerca dal nome Buto HakutoKan (La maison du Buto Blanc). Dalla sua costante attività d’insegnamento in Italia nasce un gruppo femminile dal nome Habillè d’eau (Vestito d’acqua) dal titolo di un suo spettacolo.


    Elena La Puca intervista Masaki Iwana*

    L’intervista si è svolta in occasione di un workshop intensivo presso “La Maison du Buto Blac”nell’estate del 2000, in Normandia

    Brevi cenni per un’utilizzo della danza Buto in chiave psicosomatica


    Benché il Butoh nasca come danza, esce da questi confini, soprattutto per l’idea di danza che si è definita in occidente come movimenti dinamici fisici e ritmici. Uno degli esempi di questo è il fatto che il principio su cui il Butoh si regge è quello di permettere al danzatore di mantenere o sviluppare posizioni che rappresentano per il proprio corpo-mente una necessità, stimolando così la possibilità di entrare in contatto con le motivazioni più o meno profonde che spingono il corpo a prendere una strada piuttosto che un’altra. Per il suo particolare riguardo al vissuto cenestesico, durante le lezioni gli specchi vengono coperti per evitare la comprensione visiva del corpo e viene posta molta attenzione alla respirazione, influenzando così la corporeità in generale o sottili reazioni viscerali.


    Il Butoh è stato accettato e riconosciuto in tutto il mondo come una peculiare arte performativa mentre la sua funzione terapeutica dell’entità corpo-mente non è stata bene introdotta fuori dal Giappone. Molti danzatori Butoh hanno dato lezioni in ospedali psichiatrici e studi psicologici hanno riportato la sua efficacia per i pazienti ricoverati, questo per dire che nonostante il Butoh sia una performing-art portata davanti ad un pubblico, il suo obiettivo trascende l’aspetto più squisitamente coreografico per focalizzarsi sul processo interno del sistema corpo-mente del danzatore, come dire che l’accento è posto più sul come che non sul cosa. Per queste sottili caratteristiche la danza Butoh e il suo training vengono indicati come strumenti di esplorazione e integrazione psicosomatica.


    Diversi vantaggi le vengono riconosciuti in questo senso:

    a) adatta per sviluppare la percezione della delicata relazione tra intenzione conscia e reazione subconscia

    b) reazioni emozionali indotte aprono a volte reazioni più profonde del corpo

    c) l’esperienza di simili movimenti attraverso la danza, procura alla persona effetti di salute e benessere

    d) la persona che danza diviene capace di selezionare e modulare il livello emozionale o fisico in accordo alla propria condizione.

    PARTE PRIMA

    Cosa intendi per “corpo”?

    È abbastanza difficile rispondere. Normalmente quando le persone pensano al corpo, lo intendono come qualcosa di fisico. Quando parlo di corpo intendo il corpo totale. Forse posso provare a spiegare in un altro modo. Quando parliamo di tempo e di spazio, dobbiamo ricordare che viviamo sempre due livelli di tempo e spazio, uno è quello che ci vede presenti nel momento in cui ne parliamo, l’altro è quello del tempo e dello spazio “interno”, le cui dimensioni compongono il corpo, il nostro corpo. Ciò che intendo per tempo interno è il tempo trascorso dalla mia nascita fino ad ora, la storia personale del mio corpo, le sue esperienze e quindi le sue memorie, mentre per spazio interno intendo lo spazio stesso del corpo, dalla punta delle dita alla punta della testa. Queste due dimensioni includono le memorie e le abitudini corporee, aspetti estremamente personali, di conseguenza differenti da corpo a corpo. Nello stesso tempo è importante precisare che il tempo e lo spazio interni non devono essere considerati come dimensioni a priori quanto piuttosto il risultato estremamente complesso dell’influenza che l’ambiente esterno opera sulla matrice originaria. Per questo motivo attualmente penso che tempo e spazio interni, attraverso il corpo nella sua totalità, siano profondamente intrecciati con il tempo e lo spazio esterni, la superficie del corpo funge da intermediaria tra il “dentro” e il “fuori”.

    Qual è il ruolo della dimensione temporale per il corpo e, in particolare, per il corpo che danza?

    Credo che, quando danziamo non è possibile danzare solo con il tempo presente, sopraggiunge sempre qualcosa dal passato, e qualche volta, nonostante la nostra presente intenzione, ci accorgiamo di offrire qualcosa o esporre un’altra dimensione che viene dal passato, dalla memoria.

    Stai dicendo che mentre danza, il tuo corpo non vive un tempo presente ma un tempo differente?

    Esatto. Questo è il significato di ‘’inner time’’ (tempo interno), benché non è facile spiegare concettualmente tale processo, in realtà è una sottile combinazione di tempo interno e tempo esterno.

    Il titolo della tesi a cui sto lavorando è “ Le modalità di rappresentazione dello spazio interno”, qual è la tua, potresti usare un’immagine per definirlo?

    È una domanda abbastanza difficile ma proverò lo stesso a rispondere. Parlando in maniera molto generale, quando penso al mio spazio interno, penso ad uno spazio che ha sì una sua configurazione propria ma nello stesso tempo, uno spazio che viene fortemente influenzato dal pensiero istituzionale, dalle mode e così via. Il desiderio di quando danzo è quello di riuscire appena possibile a scappare da quello che sento essere un corpo istituzionale, definito da ruoli, funzioni, vale a dire da meccanismi istituzionali; penso sempre a come giungere a realizzare la mia danza con il mio personale spazio interno, fuori da tutto ciò che è predefinito e quindi istituzionalizzato. Naturalmente questo processo è molto importante; è necessario studiare e capire quali sono le circostanze istituzionali, in modo da poter vivere e convivere con gli altri, nello stesso tempo però riconosco che dentro di me ci sono dei desideri, delle intenzioni, una sorta di filosofia o semplicemente un modo di vivere. Tutto questo genera un profondo conflitto tra il portare dentro e il mantenere fuori le influenze provenienti dall’esterno, anche se poi, proprio perché possiedo degli elementi interni, ciò che prendo dall’esterno è già in qualche modo una “riscrittura”, nel senso che viene trasformato in modo molto personale.


    Questo tuo personale concetto del corpo è cambiato nel tempo, dall’inizio del tuo lavoro fino adesso oppure no? Se è cambiato, perché?

    Prima di iniziare a lavorare con il corpo lavoravo come attore e non ero molto soddisfatto di realizzare il mio aspetto artistico attraverso l’uso della parola, attraverso il linguaggio, in questo modo rifiutavo di parlare…

    Perché?

    Perché il linguaggio è qualcosa di molto conveniente, qualcosa di estremamente pratico, niente a che vedere con il corpo profondo.
    Così ho cominciato a lavorare con il mio corpo ma a quel tempo non potevo chiamarla danza. Considerata la mia decisione di non utilizzare il linguaggio verbale, automaticamente il mio lavoro diventava quello di danzare con il corpo fisico, dove per corpo fisico intendo un corpo non totale, qualcosa di molto parziale, che non include alcuna emozione o sentimento, qualcosa alla stregua di un oggetto. Molto simbolicamente cominciai ad esporre il corpo nudo. Successivamente mi accorsi però che questo corpo fisico, il corpo nudo, era sicuramente molto importante per “fuggire” dalle modalità istituzionali di “costruire” il corpo, ma nello stesso tempo era profondamente limitato, in quanto noi siamo esseri umani, dotati di emozioni e di tante dimensioni mentali. Da allora, dopo ben dieci anni, ho cominciato a lavorare con il mio corpo in maniera diversa, più totale, pensandolo non solo come corpo fisico, ma soprattutto come sede di memoria, di desideri, di intenzioni. Tutto questo rappresenta però una sorta di processo. Credo che nella danza sia importante iniziare dalla propria motivazione interiore, è un aspetto funzionale a rendere il lavoro pieno, ma nello stesso tempo il rischio in virtù di un eccessivo rispetto per le motivazioni interne, conduce spesso le persone a dimenticare che la danza rimane comunque e sempre un processo di comunicazione con il pubblico.
    A mio avviso necessitiamo dunque di due passaggi, il primo è quello di iniziare dalle proprie motivazioni interiori, il secondo è quello di riuscire ad organizzare tale motivazione in una comunicazione fruibile dall’esterno
    Certamente bisogna fare attenzione a che questo non riduca la danza ad uno show o ad un intrattenimento, in questo caso, il rischio diventa quello di non darsi il giusto valore, la motivazione interiore perde la sua posizione mentre la preoccupazione principale diventa quella di come mostrare, del risultato esterno.

    Ok. Questa parte dell’intervista che seguirà sarà differente, probabilmente più orientata al tuo lavoro personale. Mi piacerebbe sapere la relazione che c’è tra l’esperienza performativa e la tua rappresentazione del corpo, mi spiego meglio, mentre danzi, ciò che accade durante la performance cambia il tuo modo di vedere, di sentire, in altre parole di vivere il corpo?

    La performance è qualcosa del genere: partiamo con un desiderio, con un soggetto, un tema, probabilmente una composizione, ma una volta che abbiamo iniziato, il nostro lavoro è quello di lavorare con il nostro corpo, dove con questo termine mi riferisco a qualcosa di molto grande, complesso, forse anche misterioso, con un volume molto maggiore rispetto alle mie aspettative, qualcosa che va oltre il mio confine fisico, che mi trascende. È vero che io vivo nel mio corpo ma il corpo è davvero enorme e quindi mentre danzo, anche se ho deciso di fare qualcosa in particolare, moltissimi altri elementi sopraggiungono dentro e così, alla stregua di un meccanismo, lascio che il mio corpo dimentichi e accolga, accetti dentro sé stesso tutti questi elementi. Non so se questa risposta può essere soddisfacente per la tua domanda, ma posso dire che mentre danzo, nonostante la mia motivazione iniziale, sono “chiamato” a danzare differentemente e questo scarto tra la mia idea e il mio comportamento qualche volta è molto piccolo, qualche volta rende il risultato completamente differente dall’idea originaria, e quando riesco a percepire una differenza così grande, posso sentire molto fortemente il corpo. Quello che voglio dire è che mentre danzi, se riesci ad essere veramente aperto a ciò che ti circonda, tutte le convinzioni che costituiscono la tua personalità, possono sfumare, dilatarsi, attraversare uno spazio che implica la difficoltà di definire il tuo comportamento in un
    senso piuttosto che in un altro, una sorta di ambivalenza che non permette una chiara aderenza né ad uno né ad un altro aspetto della vita; trovo che questo punto sia davvero molto interessante, mi incuriosisce molto, è una sorta di processo che ti permette di trovare te stesso, il tuo corpo, poco a poco, oppure a volte, in maniera molto immediata.

    Adesso mi piacerebbe sapere in che modo sono combinati il momento del training e quello della performance? Che cos’è per te il training?

    Si, anche questa è un aspetto molto importante. Allora, se noi ci alleniamo  in maniera “istituzionale”, possiamo certamente sviluppare molto bene le abilità del nostro corpo, come la flessibilità, il potere, l’equilibrio e così via, ma come sai, per noi il proponimento della danza non è quello di mostrare qualcosa di tecnicamente alto, ma qualcosa di più personale, indipendente e profondo, per cui forse possiamo dire che c’è una sorta di contraddizione.
    Allenarsi molto è importante in quanto il corpo è il primo strumento della mia danza e allo stesso tempo può essere il mio primo nemico, qualcosa che con le sue limitazioni può disturbare, per cui il nostro primo obiettivo è quello di trasformare appena possibile questo corpo disturbante in uno strumento intimo e semplice. Per far ciò dobbiamo cambiare (il) corpo, farlo diventare uno spazio capace di accogliere tutti gli elementi provenienti dall’esterno. Se questo ipotetico corpo scatola è troppo stretto, molti elementi non possono accedervi. In questo senso io concepisco il training, non come qualcosa per sviluppare semplicemente le abilità, il potere, la flessibilità e così via, ma come uno strumento per rendere il corpo più ricettivo, che prepari il corpo ad “aprirsi” durante il momento della performance.
    Quindi il training è anche il momento in cui provi la tua danza; qual è allora la principale differenza tra il training e la performance, tra il momento che precede e quello che invece incarna la performance?

    Probabilmente anche questa sarà una risposta indiretta; la performance, che sia un’improvvisazione o un pezzo composto, la preparo sia fisicamente che mentalmente; questo processo appare come una linea ascendente, un processo di accrescimento della mia preparazione, ma ad un certo punto il processo esita in una sorta di destrutturazione… 

    Intendi dire durante la performance?

    Non proprio. Certamente si svolge anche durante la performance, ma inizia piuttosto prima. Molto tempo fa non la pensavo a questo modo, poi ho cominciato a cambiare la mia idea, adesso credo che alla stregua della preparazione, si abbia bisogno di un tempo di decostruzione; inizialmente quindi è funzionale un processo d’incremento che vede la costruzione di un processo, successivamente è necessario un processo di decremento, di decostruzione.

    E dopo, la performance?

    Si. Questo perché se conservassi la stessa soggettiva o ideale motivazione di partenza, durante la danza il mio comportamento sarebbe ancora ideale, nel senso di artefatto, e quindi non molto organico; è per questo motivo che probabilmente sia la composizione che il tema o il soggetto dovrebbero sempre essere qualcosa di “vivente”, di incarnato appunto, (vedi Ahsen) una produzione organica. Ma attenzione, questo processo di costruzione e decostruzione non è sinonimo di “non fare niente”, semplicemente perché si potrebbe pensare che i due momenti si annullano a vicenda. Se sin dal principio non faccio nulla, probabilmente posso considerarmi libero ma non riuscirò a sintetizzare alcuna configurazione; come proposito, invece, io creo qualcosa e dopo lo abbandono, lo lascio cadere, ma nel corpo
    qualcosa rimane sempre, di subcosciente o invisibile, probabilmente il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di danzare le invisibili tracce del corpo e nel corpo.

    Ok. L’ultima domanda. Qual è per te la differenza tra corpo ideale e quello che definisci come corpo organico. Mi hai parlato del rischio che c’è durante il processo di accrescimento di mantenere qualcosa di troppo ideale e quindi di non organico, qual è la differenza tra queste due dimensioni?

    Sono completamente differenti. La produzione ideale compare solo all’interno delle abilità intellettuali, dove la mia preoccupazione è quella di considerare eccessivamente il modo in cui presentare la mia danza, in nome probabilmente di un modello precostituito da rispettare, ma questa modalità ha per me un limite intrinseco perché estremamente parziale; il corpo invece, per quanto io non sappia cosa esso sia esattamente, penso abbia uno spazio molto molto grande nella sua totalità. La filosofia buddista, per esempio, parla di uno spazio, di un territorio che le persone non possono riconoscere usualmente, una sorta di spazio misterioso se vuoi, un territorio oscuro del corpo o del pensiero interiore che attraverso il pensiero ideale non può essere raggiunto.

    E quindi a proposito del corpo organico?

    Il corpo organico è ciò che include questi territori sconosciuti e probabilmente quando parliamo di corpo organico, parliamo di un’abilità nell’organizzare le funzioni del corpo, le emozioni, i sentimenti…, ciascuno di noi ha bisogno di alcune abilità specifiche per combinare tutti questi aspetti.

    A questo punto ti chiedo allora cos’è per te l’emozione?

    Probabilmente l’emozione è parte dello spirito così come lo sono il desiderio e l’intenzione, questi tre elementi insieme compongono lo spirito di ciascuno, ma in questo caso penso che l’emozione dovrebbe venire fuori attraverso tutto il corpo.
    Per provare a renderti meglio questo concetto, voglio portarti un esempio che probabilmente sembrerà un po’ indiretto. Nella storia dell’uomo, nel caso del nazismo per esempio, molti tipi di emozioni pericolose sono apparse, vale a dire senza alcun tipo di relazione con il corpo stesso, o forse potremmo dire senza alcuna integrazione, ma attraverso una sorta di agitazione probabilmente, tali emozioni sono state organizzate, o meglio arrangiate, in maniera molto intellettuale, riesci a capire?
    Per questo motivo è importante che si riesca a riconoscere precisamente la differenza tra questo tipo di emozioni organizzate da un’ideale e le emozioni del corpo che invece compaiono come qualcosa di molto semplice e naturale.


    PARTE SECONDA

    Spesso parli a proposito della necessità di un corpo concreto invece che di un corpo ideale, ma nello stesso tempo ho letto nel tuo saggio di un ‘’ideale corpo danzante’’, puoi spiegarmi cosa intendi?

    Il termine usato rimanda al concetto di vuoto, di “corpo vuoto”; quello che intendo dire è che, vivendo in una società dalle regole molto precise, dalla nascita fino ad ora il corpo viene costruito, saturato da numerose informazioni provenienti dall’esterno. Codici, simboli o segni istituzionali tendono a controllare il nostro corpo e così quando parlo di “emptyness”, intendo dire che, malgrado non sia davvero possibile diventare vuoti, probabilmente però quando danziamo dovremmo agire non come “persone”, nel senso di socialmente definite, ma come “essere umani”, dovremmo cioè provare a dimenticare, ad abbandonare un certo tipo di pensiero, metodo o comportamento istituzionale, che ci fa vedere e sentire le cose che ci circondano in modo piuttosto limitato.

    Hai parlato di differenza tra persona ed essere umano, cosa intendi? In cosa consiste per te questa differenza?

    In realtà non conosco esattamente la definizione precisa di entrambi i termini, ma per persona intendo piuttosto colei che, all’interno di una società, instaura relazioni con le altre persone in base ad una sorta di gerarchia, l’essere umano è per me, invece, qualcosa che è allo stesso livello degli insetti, delle piante, degli animali, condivide con loro l’essenza della vita, la sua “semplice” ciclicità.

    Spesso tu parli della necessità di trasformare l’immaginazione in un’immagine. Puoi spiegarmi cosa intendi con i due termini e in cosa consiste, per te, il processo che conduce dall’una all’altra?

    Questo è abbastanza chiaro. Benché come per il caso precedente, non ne conosco esattamente la definizione, nel mio pensiero l’immaginazione è una sorta di produzione che si realizza attraverso un’idea, un pensiero, un’intuizione, mentre l’immagine è qualcosa di molto più concreto, come un quadro, una fotografia, nel senso di qualcosa di visibile, di percepibile dal senso corporeo nella sua totalità, è un’esperienza tattile.

    L’immaginazione è qualcosa di potenziale che però, se non trova ancoraggi nella realtà, nella concretezza del corpo, rimane appunto un’astrazione, una sorta di “fantasma”; l’immagine, invece, è l’esito di un processo di “incarnazione”, un’esperienza tattile appunto. Più concretamente posso fare l’esempio della differenza che intercorre tra l’osservazione e l’assimilazione che può essere o meno la conseguenza della prima.

    Quello che voglio dire è che quando abbiamo l’idea di qualcosa che vorremmo danzare o quando osserviamo qualcosa che vorremmo danzare, questo qualcosa rimarrà una semplice imitazione se rimane “fuori” del nostro corpo; diversamente accade se assimiliamo “dentro” il nostro sistema corpo- mente quest’idea o questo scenario. Per spiegarmi ancora meglio posso parlare della differenza che c’è tra l’esprimere qualcosa e il diventare qualcosa, nel primo caso sussiste ancora una differenza, una distanza tra me e ciò che voglio esprimere o rappresentare, nel secondo caso tale distanza non sussiste più, ciò che intendevo prima con il termine incarnare.

    Più volte hai ricordato che danzare nella natura è un passaggio molto importante per un danzatore, ma allo stesso tempo molto difficile, perché?

    La natura è già perfetta di per lei e in questa dimensione il corpo non ha motivo di fare molto, non ha bisogno di mostrare, perché la relazione che si instaura è molto diversa. Credo che danzare nella natura sia molto difficile proprio perché la sensazione può essere quella di sentirsi schiacciati da tale perfezione, da tale grandezza, da tanta bellezza. Percepisci chiaramente che non puoi avere il controllo totale come può accadere in un luogo chiuso come quello di un teatro o di una sala. La relazione con la natura ti ridimensiona, ti fa sentire più piccolo e allo stesso tempo parte di un tutto che è più grande di te. Per me è importante che un lavoro di laboratorio possa svolgersi, quando possibile, per metà dentro e per metà fuori; sono due spazi completamente diversi. È importante che un buon danzatore colga queste differenze, nella sua percezione e così nell’esperienza che ne fa. La danza nella natura o in generale in spazi aperti ti fa capire cosa è necessario e cosa è superfluo della tua danza, e questa capacità di discernere è importante per quando si riporta la propria danza in un luogo chiuso. Si può così provare a portare dentro ciò di cui si è fatto esperienza fuori, imparando così, a contenere questi due livelli di esperienza.

    Nel tuo lavoro di ricerca hai lavorato a lungo cercando di riproporre, attraverso il corpo, quella che può essere l’esperienza del ciclo vitale di una pianta o di un fiore. Perché pensi sia così importante per il lavoro col corpo provare a riprodurre aspetti della natura?

    Perché molto spesso l’uomo mostra la sua tendenza ad andare “contro” natura, a non accettare il naturale ed inevitabile corso delle cose e così, “rinchiuso” in un falso concetto di società, dimentica che è parte di un tutto. L’osservazione dei fenomeni naturali può aiutarci a riscoprire un aspetto dello spazio che appartiene anche a noi in quanto esseri umani. Quando ci posizioniamo come “l’uomo contro natura” è come se apparissero davvero tante differenze tra noi e ciò che ci circonda, ma ciò che tengo a ricordare quando si danza fuori è che possiamo scoprire tre processi da attraversare:

    1) Vivere contro natura è quella fase che ci vede impegnati a combattere contro le cose che non capiamo razionalmente, che non accettiamo, che non conosciamo perché non siamo ancora in grado di creare tra noi e loro uno spazio di dialogo. Questa fase è molto importante, bisogna fare attenzione a non giudicarla nei suoi aspetti irrazionali o incomprensibili perché rappresenta invece un bacino d’informazioni rispetto a quelle che sono le idiosincrasie di ognuno, i limiti e le debolezze che ciascuno di noi porta con sé. È una fase importante perché può rappresentare, successivamente, una modalità su cui riflettere, racconta qualcosa di sé.

    2) Convivere con la natura vuol dire instaurare una relazione di scambio con l’ambiente che ci circonda, scoprire quali sono le modalità personali attraverso cui entriamo in relazione con lo spazio esterno, quali gli aspetti dello spazio che troviamo più congeniali al nostro corpo, che suscitano le curiosità del corpo; è un passaggio che implica anche un certo aspetto di fusione tra sé e lo spazio circostante, come momento di conoscenza.

    3) Andare oltre natura rappresenta un passaggio molto complesso ma altrettanto necessario. Implica lo sviluppo di ciò che chiamo “distance”, la capacità di sviluppare una distanza da ciò in cui siamo immersi, per trascenderlo e poterlo così contemplare nella sua pluralità. La possibilità che ha il corpo di creare uno spazio tra sé stesso e ciò che lo circonda.
    Tutti questi passaggi hanno una loro precisa funzione e ciascuno è necessario, ma non esiste un punto d’arrivo definitivo, è piuttosto un processo circolare.

    A proposito del narcisismo. Cos’è per te e qual è, se ce l’ha, il suo ruolo nella danza?

    Normalmente possiamo pensare che l’enfatizzare se stessi, in particolar modo la propria bellezza o ciò che si possiede, nella vita quotidiana come sulla scena è qualcosa che può avere, per certi versi, motivo di essere e, al momento, può andare anche bene, ma alla gente questo atteggiamento non piace proprio, implica un’eccessiva attenzione per se stessi che a sua volta non contempla alcun interesse o curiosità per le altre persone. Ad un certo punto quindi, a causa di questo atteggiamento che possiamo definire narcisistico, lui o lei rischiano di perdere molti livelli di comunicazione. Credo invece che si abbia bisogno di uno scambio; prendere qualcosa dal
    pubblico e donare in cambio qualcosa di sé, è un processo simile a quello di un sacrificio. Nella tua cultura cristiana c’è una statua molto famosa e bella, credo si chiami “Estasi di MariaTeresa”, davvero molto bella. Ecco, per me la sua immagine rappresenta chiaramente questo, uno stato simbolico a metà tra narcisismo e sacrificio di sé agli altri.

    Spesso dici che lo spirito e il corpo devono essere vicini tra di loro…

    Dovrebbero esserlo sempre. È sempre possibile uno scarto ma questa è un’altra cosa; di base la danza è un lavoro con il corpo stesso e per corpo intendo il corpo totale, che dovrebbe essere composto dall’integrazione di fisico e spirito.

    Adesso vorrei chiederti qualcosa a proposito dell’improvvisazione…

    Quando si parla di questo aspetto cerco di andare sempre molto cauto per evitare che sorgano fraintendimenti. Non credo che l’improvvisazione sia un modo per danzare liberamente; credo invece che il corpo sia molto limitato, condizionato, le stesse sue abilità sono limitate. Per improvvisazione non s’intende l’abilità di produrre istantaneamente molti movimenti o di mostrare particolari forme, pensieri o intenzioni. Credo, in sintonia con la mia esperienza, che al fondo del nostro corpo esista molto materiale e la danza può rappresentare una sorta di grande dialogo tra passato e presente. Il materiale di cui parlo è composto dalla memoria, dalle abitudini del corpo e rappresenta il passato, mentre il presente si genera dalla reazione diretta rispetto al pubblico, le emozioni che questo si suscita, la musica, un certo tipo di atmosfera che si trova o che si viene a creare. Ciò che l’improvvisazione rappresenta per un danzatore è il modo attraverso cui egli riesce ad organizzare, a sintetizzare tutte queste diverse informazioni in una precisa ma flessibile configurazione. Intendo questo tipo di processo quando parlo d’improvvisazione e sono sicuro che non sia invece un’abilità che ci permette di fare qualsiasi cosa, sarebbe questo un modo di pensare
    molto ottimistico e forse anche ingenuo. Noi tutti siamo molto limitati, influenzati da ciò che ci circonda, non ci è dato fare qualsiasi cosa, semmai scegliere alcune cose piuttosto che altre. Grazie all’esperienza del passato e ad una disposizione di apertura rispetto al presente, riuscendo ad utilizzare tutte le “antenne” che possediamo, possiamo scegliere la cosa, al momento, più importante e significativa per noi, ma per far questo è necessario un continuo lavoro di conoscenza del proprio corpo.

    Cos’è per te la danza rispetto alla vita stessa, cosa intendi per arte, lo spazio dell’arte e cos’è la vita in se stessa, qual è la principale differenza tra queste due dimensioni e in quale modo esiste una relazione tra lo spazio della vita quotidiana e lo spazio della vita sulla scena?

    Fondamentalmente credo che la vita quotidiana e la danza dovrebbero essere la stessa cosa. Dalla vita di ogni giorno traiamo molta ispirazione, è attraverso di essa che proviamo a rispondere alle nostre necessità, ai nostri desideri; quello che vado a fare nella danza è una sorta di trasformazione di questo materiale in qualcosa di oggettivo, e per questo motivo dico che queste due dimensioni dovrebbero essere combinate tra loro. Nello stesso tempo, da un altro punto di vista, il processo artistico implica la capacità di operare un “taglio” nella vita quotidiana che scorre come un fiume. Il punto forte di un artista, in questo senso, è rappresentato dal fatto che ha l’occasione di dislocare la vita quotidiana, “tagliarne” dei pezzi e trascinarli, trasformandoli, sulla scena. Non tutte le persone possono realizzare tale processo, neanche per gli animali e gli insetti è possibile, o meglio, forse per loro non ce n’è alcuna necessità.

    Perché invece per l’uomo è così necessaria la dimensione artistica in questo senso?

    Credo che il motivo riposi sul fatto che la vita e lo spirito dell’uomo sono profondamente confusi..

    Circa che cosa?

    La nostra mentalità è composta da molti aspetti: gelosia, invidia, insoddisfazione, senso di distruzione, orgoglio e così via; così tanti elementi si combinano tra di loro. Se questi riescono ad integrarsi in maniera funzionale e organica con gli altri aspetti, allora non si presentano grossi problemi, altrimenti l’uomo non riesce a sopportare la complessità e le contraddizioni che continuamente la vita gli propone. Una delle possibili soluzioni credo sia riposta nel processo artistico, che a mio avviso rappresenta un’altra occasione, con cui l’uomo, attraverso un’operazione di “taglio” dello spazio e tempo quotidiani, può ricucire la vita in un’altra dimensione.

    Quindi è per questo motivo che hai detto che in un mondo così caotico l’artista riveste un ruolo molto importante?

    Si. Certamente quando danzo, rispondo ad un piacere personale, ma credo che questa sorta di continuità, che risulta essere abbastanza difficile per una persona ordinaria, rappresenti un esempio molto importante. Penso che questo tipo di lavoro implichi una vera e propria responsabilità rispetto alle altre persone, le quali certamente non pensano che sto lavorando per loro, ed io del resto sono sicuro di no, ma nello stesso tempo credo che il nostro lavoro possa rappresentare uno spunto di riflessione non solo per noi, ma per chiunque possa fruirne.

    Ti sei mai sentito stanco o deluso circa il tuo ruolo di danzatore?

    (ridendo) Sempre!


    La mia domanda è se la tua stanchezza o la tua frustrazione deriva dal fatto di mostrare qualcosa agli altri che loro in realtà non vogliono accettare nella loro vita quotidiana…

    In realtà non sono sicuro della tua domanda ma posso dire che esiste un genere chiamato di intrattenimento, il nostro lavoro qualche volta può esserlo ma generalmente no. La differenza tra i due è questa: la gente è triste o ha del tempo libero da occupare, così va a teatro a vedere uno spettacolo d’intrattenimento, il bisogno a cui risponde questa scelta è quello che, durante quel tempo trascorso, può evitare di pensare alla propria vita; se posso usare un esempio simbolico, è un po’ come leggere uno di quei giornali settimanali, il contenuto di queste riviste non interessa davvero, è solo un modo per passare il tempo, in quanto non ha niente a che fare con la vita, intendo quella vera. Ovviamente il genere d’intrattenimento non può realmente essere definito come qualcosa di così riduttivo, ma a mio avviso c’è qualcosa di simile. Il comportamento che viene mostrato in questi casi, non credo abbia nulla a che vedere con le loro motivazioni interiori, mentre il nostro lavoro penso sia l’opposto. Quello che voglio dire non è legato ad alcun giudizio di valore, se sia meglio l’uno o l’altro, questo in realtà non è importante, quello che penso sia importante è tracciare delle differenze. Molto spesso il pubblico mi ha detto che guardando la mia danza sembrava fossi impegnato a rappresentare la mia vita come una sorta di rimpianto, questo mi ha fatto capire che loro in realtà non hanno visto la “mia” danza, ma attraverso di essa hanno avuto la possibilità di ripercorrere il proprio passato, il proprio rimpianto. Ascoltare queste parole è stato costruttivo, mi ha mostrato la misura in cui ciò che era avvenuto non era stato semplicemente uno scambio fisico e diretto ma guardando la mia danza, avevano potuto intimamente rimandarmi la loro vita; penso sia questa la differenza. Spero di aver risposto in qualche modo alla tua domanda.

    Una volta hai detto che il pubblico è disposto a vedere l’ambiguità o il mistero solo a condizione di riconoscerle come “prodotti” dell’arte e non come dimensioni appartenenti realmente alla persona; avevi sottolineato la natura istituzionale di questo meccanismo perché la gente non vuole vedere il mistero nella sua vita “reale”, ma solo nello “spazio artistico”, quasi fosse un luogo “sicuro” in cui poter proiettare qualcosa di scomodo. Perché?

    In realtà all’interno di questo processo c’è una sorta di contraddizione. L’arte nasce e si sviluppa sempre dal continuo processo dialettico tra la coscienza del singolo e quella collettiva; in questo caso se la coscienza del pubblico riesce a crescere sempre di più, ad avere sensi, pensieri e sentimenti sempre più liberi, il dialogo che si instaura può essere incredibilmente vasto e articolato, sfortunatamente però il pubblico a volte rimane chiuso in nozioni davvero molto limitate e questo ovviamente rappresenta un ostacolo ad un tentativo di comunicazione più ampio. Naturalmente ci si augura di poter sempre esprimere liberamente la propria danza, ma nello stesso tempo bisogna tener presenti questi diversi livelli di comunicazione, per provare così a trovare una mediazione, una sorta di compromesso. La prima volta il pubblico può rimanere incuriosito da qualcosa di strano, di misterioso, ma se ciò che trovano è sempre questo aspetto, lo avvertono come una minaccia alla loro costante ricerca di stabilità, molte persone tendono a fuggire questo aspetto. Nel caso in cui invece, la coscienza del pubblico riesce a crescere molto e l’artista riesce ad essere molto coraggioso, si crea una situazione di grande scambio. Chiaramente questa è da considerarsi la situazione “ideale”. Se questa situazione potesse essere possibile, probabilmente la società stessa sarebbe diversa, cambierebbe; dico questo perché penso che la coscienza del pubblico rappresenti una sorta di micro modello della società più allargata. Riesci a capire?

    Certo. Nello stesso tempo penso però che sia necessaria, e quindi inevitabile, una sorta di cristallizzazione; la società stessa rappresenta un aspetto di questo processo e credo quindi che sia un’utopia pensare di realizzare una simile società…

    Sicuramente! Condivido, ma se leggi ‘’il mito di Sisifo’’ di Camus, troverai una descrizione molto simbolica al riguardo: una persona spinge una pietra verso l’alto e questa, ogni volta, ricade giù, eternamente lui ripete questa azione e il risultato è lo stesso; credo che il nostro lavoro debba essere simile…

    Per sempre…

    Si, per sempre, anch’io la penso così. Se diventassi molto famoso, probabilmente la mia vita sarebbe più facile, ma anche se penso che questo non accadrà, continuerò a spingere la pietra, la considero una sorta di prova della mia vita e non ho rimpianti circa questa scelta.

    Ok. L’ultima domanda. Circa il piacere. Spesso parli di questo aspetto come della prima condizione necessaria per danzare, aggiungerei probabilmente per vivere, ma perché, mi chiedo e ti chiedo, a volte è così difficile danzare con il “semplice” piacere di farlo? Senza dover pensare ogni volta:«devo fare questo o quest’altro!», ma semplicemente sentendo il piacere…

    Questa è una domanda davvero molto seria…

    Appunto, l’ultima…

    Ti racconterò una cosa che spero possa esserti da esempio. Quando ero molto giovane, intorno ai venticinque anni, volevo diventare adulto; tra i trenta e i quarant’anni, potevo considerarmi socialmente adulto, ma il mio spirito era ancora come quello di un ragazzino, col passare del tempo cominciavo ad invecchiare e così ad un certo punto, probabilmente intorno ai quarantacinque anni, ho potuto riflettere su cosa voleva dire essere adulti, sul perché lo avevo desiderato tanto ma nello stesso tempo ne ero spaventato. Credo ora che abbia a che fare con il confronto con gli altri, di cui per molto tempo, in certi casi purtroppo anche per sempre, si teme il giudizio; solo nel momento in cui li ho riconosciuti uguali a me, ho potuto non averne più così paura. Cambiando il mio modo di pensare ho potuto cambiare il
    mio modo di danzare, di vivere, non mi preoccupavo più di danzare “bene”, o di mantenere condizioni molto rigide per farlo; ho messo in discussione così tutti i pregiudizi che mi ero costruito in base a forti insicurezze, ad un certo punto ho pensato che non erano poi così veri, così reali, perché la danza in realtà è “semplicemente” questo:

    qualcosa di cui poter gioire!

    Naturalmente ciò che ti ho raccontato rappresenta qualcosa di molto profondo, e dietro questo tipo di considerazione abbiamo anche bisogno di una sorta di meccanismo e di preparazione, sia fisica che mentale, ma nello stesso tempo se riesco a mantenermi aperto a ciò che mi circonda, posso scoprire nuovamente ogni volta ciò che sia la danza che la vita rappresentano e cosa vuol dire essere adulti. Immediatamente dopo possiamo sentire tutto molto facile, come quando ci togliamo da dosso un vestito molto pesante e poter pensare:«perché no? Posso davvero danzare come voglio!», e anche se qualcuno ci dice che non va bene, possiamo pensare che non c’è problema, possiamo prenderci la responsabilità di quello che facciamo. Da allora è stato così, molto diverso, ma ci ho messo vent’anni per liberarmi dalla preoccupazione di come danzare, e per la prima volta, molto simbolicamente, sulla scena ho potuto guardare in alto, ho potuto pensare che tutto andava bene, che in qualche modo potevo essere libero…

    Forse perché fino a quel momento avevi avuto nella mente qualche modello ideale da seguire?

    Si, esattamente.

    Questo è tutto…

    Si. Tutto ciò che ti ho detto in maniera così immediata, che forse adesso potrà sembrarti difficile, deriva dalla mia lunga esperienza di venticinque anni di danza; è il risultato di questa lunga esperienza, di cui sarebbe troppo difficile dire cosa viene da cosa e quando. Per questo motivo è importante che, a prescindere da ciò che si può imparare dall’esperienza altrui, ciascuno impari ad investigare autonomamente sul senso della propria danza, sul senso del proprio corpo.
    Così da domani potrai cominciare a danzare liberamente e con piacere!

    Ci proverò…


    “A proposito di corpo… Una voce del Butoh: Intervista a Masaki Iwana”
    Pubblicato in “Arti Terapie” n°1/2” periodico a cura dell’Associazione Europea per le arti terapie nel 2002.

     “La danza butoh e le sue origini” pubblicato in Arti Terapie n.8/9 nel 2005.


    Su Masaki Iwana: “Half demon. Un uomo in viaggio”  di Silvia Rampelli su www.doppiozero.com