Introduzione
Lo scritto che segue rappresenta uno stralcio e una messa a fuoco della tesi con cui mi sono laureata in Psicologia nel 2001 presso la cattedra di Psicofisiologia Clinica del Prof. Vezio Ruggieri a La Sapienza di Roma dal titolo: Le modalità di rappresentazione dello spazio interno nella danza e si pone come un approfondimento nell’ambito degli studi relativi all’immagine corporea e alla danza, nonché una riflessione su come le rappresentazioni che abbiamo, accompagnate dai suoi variegati vissuti, siano alla base della costruzione e dello sviluppo, sempre in fieri, della propria identità.
L’intenzione di oggi è quella di lasciar emergere una parte della tesi che, in sede di discussione, era rimasta in ombra e che invece aveva rappresentato, in origine, lo stimolo ed il cuore del mio interesse: le metafore usate dai soggetti intervistati per raccontare il proprio spazio interno nella complessa ed articolata relazione tra corpo, vissuto e linguaggio.
Uno dei significati di metafora è quello di “portare oltre”, perciò una delle sue funzioni è quella di fare da ponte tra i diversi piani dell’esperienza.
Lo psicoanalista sudamericano Ignacio Matte Blanco, in una parte del suo lavoro dedicato alla questione della relazione tra spazio e mente, faceva notare come ogni metafora faccia uso del concetto di spazio e che senza metafora praticamente scompare la possibilità di espressione dei fenomeni psichici e spiega che << ciò non è sorprendente se si ricorda che lo stesso concetto che è alla base della psicologia deriva il suo nome da una metafora: il vento. (…) la parola spirito e tutte le altre parole che fanno riferimento all’anima derivano da respiro o vento, in tutte le lingue>>. (“L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bilogica” – pp.452)
Dietro le quinte
La motivazione che a quel tempo aveva ispirato la mia ricerca nasceva dal percorso iniziato diversi anni prima con un laboratorio di ricerca teatrale e con diversi seminari di danza.
In particolare, l’incontro con la danza butoh sensibilmente orientata all’esplorazione e allo sviluppo di un’integrazione percettiva tra spazio interno ed esterno, tra forma e contenuto, tra immagine visiva e immagine propriocettiva e cinestesica, aveva rappresentato per me il dischiudersi di una percezione tutta nuova…
In seno a questa esperienza mi ero confrontata con quel fenomeno per cui l’immagine mentale diventa spesso un prodotto astratto, fenomeno questo che rappresenta chiaramente uno dei “modi di funzionare” della mente ma che, nel suo radicalizzarsi, rischia di generare quella che in linguaggio psicofisiologico viene definita una scissione “mente-corpo” (Ruggieri, 2000), uno sradicamento dell’immagine dal suo tessuto corporeo, dal suo contesto vivo e complesso di esperienza: rimane solo nel campo visivo senza essere più
accompagnata dall’integrazione percettiva degli altri sensi, come un fiore oramai reciso…
La preziosa funzione che il contatto riveste nel processo di conoscenza, viene ben descritto ne Le cinque senses del filosofo Michel Serres:
“La peu sur elle-meme prende conscience,
ainsi sur la moqueuse et la moqueuse sur soi-meme.
Sans repli, sans contact de soi-meme sur soi, il n’y aurait pas vraiment de sens intern
pas de corpe propre, moins de cénesthésie, pas vraiment de scéma corporel, nous vivrions sans conscience;
lisses, prets a nous évanouir”
Nello sviluppare la mia tesi, l’intenzione era quella di restituire certe immagini al corpo, permettendo loro di entrare di nuovo in contatto con quei luoghi da cui, per qualche motivo, erano state allontanate, far trovare loro di nuovo la strada …
Partivo dal presupposto che lo spazio interno è sì separato da quello esterno, ma di questo, di cui è parte, conserva una similarità! e ipotizzavo quindi, che la lettura delle sue rappresentazioni poteva suggerirci qualcosa della dimensione più intima di ciascuno, del modo in cui questo viene vissuto, di cosa gli manca e di quali compensazioni potrebbe aver bisogno.
Trapelava dalle mie esperienze e da un certo tipo di osservazione, che per ciascuno di noi, ci fossero quelle che mi piace definire, immagini helpers, che se ritrovate e richiamate ai nostri sensi, possono fungere, per l’appunto, da risorse compensatorie!
Perché lo spazio interno?
La scelta di indagare le modalità di rappresentazione, e mi piace anche dire, di narrazione dello spazio interno, è stata guidata dall’intuizione che le immagini prodotte, evocate, potessero in qualche modo, attraverso il vissuto che esse veicolano, fungere da indizi circa le modalità di costruzione e percezione della propria immagine corporea e che in alcuni casi la focalizzazione di questa dimensione dello spazio, potesse rappresentare una via regia per il processo d’integrazione propriocettivo e sinestesico.
Lo spazio interno è un’esperienza!
Ed è proprio con la memoria di un’esperienza di un’improvvisazione di danza vissuta diversi anni fa che voglio introdurvi alla questione!
Partecipavo ad un seminario di danza butoh e dopo un lavoro di riscaldamento, il conduttore c’invitò ad uscire nel parco che circondava la sala, osservare lo spazio e andarci a sistemare lì dove desideravamo iniziare la danza.
Il luogo era ampio e circoscritto da alcune colonne ma la mia attenzione fu attirata da una vecchia scatola di legno abbandonata un po’ più in là, aperta su uno dei lati e abbastanza grande perché io vi potessi entrare ed iniziare la mia danza: come in un guscio, potevo sentire le pareti di legno dietro la mia schiena e sopra la mia testa, potevo sentire il suono del silenzio e guardare il mondo fuori…
L’esperienza di quella danza interna è durata a lungo lì dentro fino al momento in cui ho assecondato il desiderio di uscire, piano e molto gradualmente, prendendo coscienza di quel delicatissimo momento, di quello spazio tra…
Oggi, mi piace dire che per danzare prendo a prestito un immagine dal mondo!
E quella volta è stata la prima volta che questo processo, si è palesato così chiaro:
ero entrata in contatto con un oggetto che in quel momento era disponibile nello spazio e che aveva catturato la mia curiosità, lo avevo scelto come strumento per fare esperienza di qualcosa di cui evidentemente avevo bisogno ed infine, avevo lasciato che uell’esplorazione diventasse la mia danza.
Diverse altre esperienze sono seguite e insieme a quella, in maniera via via più matura, mi hanno portato a continuare ad approfondire la danza e le sue possibili forme di applicazione all’interno di quel continuum che va dalla “pura” espressione artistica e performativa, attraverso diverse sfumature e ibridazioni, alle forme d’intervento arte e danzaterapeutiche.
Un questionario autoprodotto
Parallelamente alla scelta dell’argomento della tesi, cominciai a lavorare alla realizzazione di un questionario “fai da mé” che potesse in qualche modo esplorare gli scenari interni e il cui fulcro fosse quello di permettere ai soggetti intervistati di sintetizzare in immagini, grazie all’uso delle metafore, il loro spazio interno.
Le metafore nel corpo
Qui di seguito trovate alcune delle metafore raccolte nelle interviste:
Un frattale
Un fuoco d’artificio
Una matrioska
Il cielo di notte
Un buco nero
Un barbapapà
Un girone dantesco
Un sottobosco
Uno spazio confusionario
Un contenitore
Uno spazio complicato
E tu?
Quale metafora useresti per iniziare a danzare?