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La danza Buto e le sue origini

    Dance is the movement of the soul accompanied by the body“. 

    CENNI STORICI


    «La mia danza è il segno di ciò che emerge dalle profondità del corpo,
    i gesti e i comportamenti vissuti ed osservati si raccolgono nel corpo
    e restano lì come zattere su un fiume poi, ad un tratto, premono per venire
    alla luce attraverso le braccia, le gambe, le mani, un’espressione del volto … » TATSUMI HIJIKATA

    La prima volta che ho preso parte ad un seminario di danza butò, nella primavera del 1997, con il danzatore Tetsuro Fukuhara, non avevo la minima idea di cosa fosse, ciò che mi spinse a provare fu pura curiosità …
    L’esperienza mi affascinò molto perché m’introdusse ad una concezione della danza che non conoscevo affatto.
    Dopo la fase di riscaldamento, il primo esercizio proposto fu quello di attraversare molto lentamente lo spazio della sala da un’estremità all’altra provando semplicemente ad abbassare in maniera progressiva il baricentro del corpo. Probabilmente fu solo “suggestione”, ma ebbi la sensazione che durante il tragitto, lo spazio si dilatasse, diventando più denso, più caldo, era una sensazione completamente nuova, quanto meno dimenticata, involontaria…

    Non dovevo esprimere nulla né tanto meno creare particolari coreografie, mi si chiedeva soltanto di attraversare lentamente lo spazio: potevo sentire il mio essere corpo, potevo percepire le relazioni tra le parti e di queste con lo spazio circostante.
    Il seminario è durato tre giorni durante i quali abbiamo avuto modo di fare di­verse esperienze tra cui quella della “space dance”.

    La richiesta era quella di uscire dalla sala in cui stavamo lavorando per usare il parco circostante come spazio di lavoro. Ciascuno, poteva sviluppare la propria danza in relazione ad un luogo dello spazio o con un elemento che spontaneamente lo avrebbe attratto o verso cui si sarebbe sentito più in sintonia: un albero, un sentiero di ciottoli, una scala a pioli, una panchina, un cumulo di foglie, un vecchio secchio …
    La sensazione che mi si è impressa più fortemente di quella esperienza è stata la libertà di lasciare andare qualcosa o forse di riappropriarmi di una sensazione … , potevo riscoprire il piacere di sentire la mia danza libera da grandi e articolati movimenti e soprattutto libera dal bisogno di esprimere qualcosa che fosse immediatamente riconoscibile ad un occhio esterno, potevo lasciare che fosse il desiderio a guidare la mia danza.
    La danza buto nasce a Tokyo alla fine degli anni ’50 come esito del sodalizio artistico di due affascinanti figure della danza giapponese d’avanguardia: Tatsumi Hijikata e Kazuo Ono.
    Una spiegazione etimologica viene fornita dal coreografo e danzatore Kò Murobushi: bu è lo stesso ideogramma contenuto in Kabuki e significa ballare o muoversi elegantemente, riferito principalmente alla parte superiore del corpo; to significa calpestare, battere, e indica essenzialmente il movimento dei piedi, che rimanda in qualche modo ai riti sciamanici dell’antichità, e suggerisce l’idea di “prestare orecchio” ad un altro mondo, diverso da quello quotidiano, calpestando la terra, in un atto che ha la funzione di chiamare a sé i suoi spiriti, scuotendola…..
    In questa chiave il Butò potrebbe definirsi il prodotto del dialogo intimo tra il movimento delle mani e quello dei piedi, tra calma e violenza, tra Apollo e Dioniso; non una tecnica, ma una relazione profonda tra il corpo e la sua natura.
    In Europa se ne cominciò a parlare solo all’inizio degli anni ’80, quando il pubblico si confrontò con qualcosa che non solo apriva nuovi orizzonti artistici dal punto di vista delle arti performative, ma che allo stesso tempo, risultava animato da una forza dirompente e un’intensa capacità comunicativa. L’incontro fu interessante perché nonostante la critica provasse ad “acciuffare” la nuova danza dal punto di vista interpretativo o definitorio, considerandola a seconda, antitradizionale o ispirata al teatro popolare giapponese del XIX secolo, antioccidentale o in qualche modo portavoce dell’Espressionismo tedesco, post-atomica o primitiva, erotica. o intimista, provocatoria o glaciale, corporale o metafisica … , il buto continuava a divertirsi in questo continuo e alternato gioco dei ruoli chiarendo così, in maniera più o meno esplicita, la .sua autosottrazione a qualsiasi forma di “sistema” o di “scuola”.
    Facciamo un passo indietro però, e cerchiamo di comprendere il contesto storico sociale che ha visto fiorire questa nuova generazione della danza.
    Negli anni ’60, quando in Giappone inizia un’intensa attività del movimento studentesco e si diffonde una generale insoddisfazione sociale, tutta l’avanguardia teatrale, che includeva anche la danza ed era desiderosa di trovare una “nuova identità” giapponese, rifiutò sia la tradizione classica autoctona sia la modernità che giungeva da oltre oceano.
    Hijikata, colui che viene considerato il padre fondatore del buto, si trova così a respirare quell’aria e a condividerne il desiderio; entra in contatto con numerosi scrittori, (tra cui Mishima che fu uno dei suoi grandi sostenitori), pittori, poeti, registi, fotografi e musicisti appartenenti all’avanguardia artistica.

    Da questi incontri d’idee nacquero i cosiddetti “Dance Experience”, laboratori fortemente improntati sull’improvvisazione e sull’ esplorazione delle possibili metamorfosi del corpo.

     Alla base di questo lavoro c’era il pensiero che per dar vita ad una nuova concezione della danza era necessario lasciar cadere le forme preesistenti e liberare il corpo dai forti vincoli di controllo sociale.

    <<Il corpo è fondamentalmente anarchico>> amava ripetere e l’essere umano, oltre all’aspetto sociale, possiede molti altri volti: il suo intento era quello di tirarli fuori, attraverso questo lavoro di ricerca.
    Il risultato è quello di una danza non narrativa, opposta all’elevazione tipica del balletto ed estranea al movimento che crea disegni nello spazio caratteristico della danza moderna; uno spazio aperto che si faceva portavoce di un sistematico sovvertimento dei comuni canoni estetici della danza portando sulla scena quegli aspetti che la danza tradizionale, quella d’importazione, nonché la “luce” della modernità avanzante, avevano snobbato o in qualche modo nascosto.

    Ecco così l’entré dell’oscenità, del grottesco, del kitch, della violenza, del degrado, insomma la parte “oscura” della corporeità poteva qui, finalmente, mostrarsi con diritto di presenza.
    Non a caso agli esordi della sua ricerca, Hijikata definisce il suo, Ankoku Buto: danza delle tenebre.
    L’obiettivo non era quello di parlare usando il corpo, quanto piuttosto, lasciare che questo mostrasse le sue verità.
    Alla base il desiderio di spogliarsi delle identità quotidiane e socialmente addomesticate per tornare ad un “corpo originario”, un entità naturale.
    Nella danza occidentale “qualcuno” danza; nel Butoh si dice che “qualcosa” muove, “qualcosa” danza.


    IL PROFILO ESTETICO


    «Io non danzo nello spazio. Io danzo lo spazio».
    MIN TANAKA

    Dalla fase della prima generazione del Buto, molto della sua natura è andato evolvendosi, a volte forse perdendo l’ originale motivazione, ma ciò che rimane forte, è forse un aspetto di “archeologia del corpo”, un sottile attraversamento della memoria, della materia, che da quella individuale conduce il corpo in un luogo che Jung avrebbe chiamato dell’ «inconscio collettivo» e che i giapponesi chiamano ma, il “vuoto”, un vasto spazio dove le tante possibilità si mescolano fino a far emergere un’idea.

    A partire da Hijikata, il Buto ha indagato una modalità performativa che potesse fare a meno dei segni codificabili, sottraendosi allo stesso impulso alla forma e all’espressività.
    «Il corpo del performer non è, nelle parole di Hijikata, una disponibilità del performer o la prova di un sapere acquisito: è la sintesi di una fragilità che non aspira a nascondersi nelle forme ma spinge pervicacemente nella vita» (Ottaviani, 2000).
    Credo di poter rintracciare precisamente in questo aspetto, che vuole che la fragilità si mostri, che l’esitazione si dispieghi, l’interesse così intenso, manifestato in Europa, nei confronti del buto, non a caso in un periodo storico in cui uno dei must più in voga sembra essere quello di nascondere, sotto immagini posticce e con utensili di ogni sorta, le verità del corpo, o quanto meno la complessità della sua natura, la complessità dell’ essere umani.
    A questo punto, benché risulti piuttosto difficile interpretare, in ultima analisi tale percorso di ricerca, è possibile rintracciavi alcuni elementi ridondanti che costituiscono in qualche modo il tracciato del suo profilo estetico, ricordando sempre che non rappresentano delle condizioni necessarie per la danza quanto piuttosto delle “porte di accesso” per un’esplorazione più completa delle sue possibilità.

    a) la ribellione e la provocazione
    Come è stato già esposto nella parte dedicata ai cenni storici, la nascita della danza Buto va collocata in un preciso contesto storico, all’interno del quale era forte, da parte di alcuni, il desiderio di “rompere” le regole a cui il corpo era sottoposto da una cultura conservatrice e repressiva.

    L’esito di tale condizione è stato quello di una radicale ribellione che si manifestava nella rappresentazione sulla scena degli elementi più diversi e opposti tra di loro: la vita, la morte, l’erotismo, l’ascesi, il banale, il deforme.

    b) l’ambiguità
    La compresenza cioè degli aspetti del maschile e del femminile nella stessa persona, e comunque in generale la possibilità di miscelare insieme gli aspetti considerati opposti, dando la sensazione a chi guarda di trovarsi dinnanzi ad un processo di anamorfosi.

    e) la lentezza del movimento
    La lentezza si giustifica in quanto funzionale all’esplorazione del corpo nella sua totalità; permette cioè le correzioni evitando brusche interruzioni e facilitando così la comprensione sottile della relazione tra le parti perché permette all’ esperienza, di sedimentare durante il suo stesso dispiegarsi.

    d) il corpo oggettivato come svelamento di sé e perdita dell’identità
    Uno degli aspetti più caratteristici della danza Buto è quello del forte desiderio di comunicare il proprio “mondo interiore”. Tale spinta faceva sì che la danza non rispondesse a precise leggi di organizzazione spaziale e di uso del corpo quanto piuttosto un modo per lasciare che fosse il corpo stesso a rivelare la sua verità, in questo modo «più che danzare, “si viene danzati”; più che mostrare delle cose si diventa quelle cose» (Salerno, 1998), la “materia fisica” è la danza.

    Così a poco a poco il soggetto passa dalla prima alla terza persona o dalla prima persona all’assenza di persona, dalla materia umana a quella fisica.

    Questa trasformazione nella danza è uno stimolo completamente differente da quello della danza moderna che lega il movimento all’espressione personale. Ciò che viene danzato è l’aspetto interiore della stessa materia fisica che esiste da molto tempo prima che esistesse l’io» (ibidem).
    Queste parole lasciano intuire che la danza non è, o almeno non solo, un atto intenzionale, un segno di una volontà personale, quanto la manifestazione di una “spinta” al movimento che a volte prescinde dalla propria cosciente decisione, concedendosi la possibilità di lasciare che il movimento si manifesti “da solo”.
    Trovo a questo punto interessante riflettere su come l’aspetto dell’oggettivazione del corpo, che sembra essere uno dei suoi motivi estetici dominanti, abbia qui, un significato completamente diverso rispetto a come lo intende la cultura occidentale.
    Mentre per quest’ultima la parola “oggettività” ha sancito un processo di disgiunzione, di scissione, in cui il soggetto si separa, astraendosi, dal suo aspetto fenomenico per poterlo individuare appunto come oggettivo, per poter creare una sorta di “distanza di sicurezza”, nella danza buto tale concetto ha piuttosto la valenza della dissoluzione dell’identità individuale nella concretezza della materia: il punto è qui, non quello di rappresentare o mimare la materia ma diventare, essere la materia stessa.

    g) metamorfosi:
    La questione della metamorfosi è uno dei perni principali attorno a cui ruota il lavoro di ricerca del buto.
    «Quando il danzatore mostra immagini strane, create nella prospettiva di un insetto, o di un feto, o di un nano, fa comprendere che esiste più di un modo di guardare la vita». (ibidem)
    Il corpo si apre così alla “diversa natura delle cose” di cui è fatto e in cui è immerso.

    Molti danzatori lavorano per condurre il corpo a ritrovare dentro di sé la natura vegetale, animale, materica, sviluppando così una profonda coscienza della natura dentro e fuori il corpo; un processo di accoglimento dell’ “altro” dentro di sé.
    Così imiti una vecchia donna e forse ti accorgi di avere una profonda affinità con quel particolare modo di muoversi; provando ad essere persone e cose diverse si arriva a trovare quale di queste si sente più vicina al proprio cuore e al proprio corpo e in questo modo si trova non solo il proprio stile di danza ma il proprio modo di essere al mondo». (Ojima, 1985)

    h) improvvisazione
    L’improvvisazione sulla scena è un altro leitmotiv del butoh, improvvisazione che non vuol dire lasciarsi andare a movimenti casuali o arbitrari, quanto piuttosto, a partire da una profonda conoscenza del corpo e dei suoi limiti, vuole essere una sorta di invisibile accordo tra regola e spontaneità, un sottile bilanciamento tra assertività e recettività.
    Proprio perché non si attiene alla riproposizione di rigide sequenze già stabilite in precedenza, l’improvvisazione rappresenta un modo per mettere il corpo in condizioni “limite”, di esitazione, di ambiguità, in uno “spazio tra”.

    La motivazione di tale scelta riposa nell’idea che tale processo conduca ad uno svelamento di gran parte del mondo personale di chi danza; esponendo maggiormente il corpo al rischio, questo diventa più ricettivo.

    BUTOH-FU


    Per comprendere la relazione tra corpo e linguaggio, è interessante citare la sfida in cui si cimentò Hijikata nella fase finale della sua vita e della sua ricerca, cercando di dare forma all’informe, cercando di dire a parole ciò che non può essere spiegato con le parole.

    Per dar corpo a tale sfida Hijikata ha creato una “dance notation”: il butoh­fu.
    Solitamente in occidente, simili strumenti di annotazione, (per es. quello inventato da Laban), hanno avuto l’obbiettivo di memorizzare e fissare le posizioni del corpo.
    Anche nel caso del Buto-fu è presente l’utilizzo delle parole per memorizzare un processo ma la differenza sta nel fatto che sono parole di immagini, metafore; potrebbe essere definito un “sistema di doppia annotazione” contemplando al suo interno non solo un asse verticale, ma anche un’addizionale asse orizzontale che attraversa il primo.
    Facciamo un esempio: mentre in un classico sistema di annotazione, si dice al danzatore o all’attore semplicemente di alzarsi o di sedersi, in questo caso potremmo suggerire loro di alzarsi “invitati dalla luce della luna” o di sedersi “mentre una pietra preme sulla loro testa” …
    Aggiungendo allo spazio diverse qualità e quantità si orienta l’organizzazione percettiva attraverso sfumature dell’ azione totalmente differenti rispetto al primo esempio.
    Il buto-fu può così essere definito un linguaggio fisico che facilita il danzatore a cercare nello stesso tempo, il movimento e un modo possibile per relazionarsi allo spazio.
    Ogni parola implica un certo movimento, una certa condizione, una serie di unità di movimento e un riferimento che illustra l’immagine di una danza. Il Butoh-fu utilizza le parole per evocare situazioni che non sono facili da simbolizzare: una parola non è qui, uno strumento per ricordare, piuttosto viene usata come un medium perché un’immagine fisica si espanda attraverso l’immaginazione.
    Se vi piace, potremmo usare il termine di scenari percettivi, chiavi sinestetiche­ per accedere alla danza.
    Ecco di seguito alcuni esempi di parole o frasi che Hijikata “lanciava” ai danzatori durante le loro improvvisazioni: relativi al movimento delle mani lunghe pipe; pettinare; il mento che riposa sul tavolo; trasportare una tazza; ondeggiare rami di fiori di ciliegio; ornamento per capelli; rossetto; torcere l’asciugamano; tagliare il filo con i denti; il contorno della tua faccia; perdere i capelli; grande naso; orchi …
    Insomma! Suggestioni immaginative che organizzano la percezione.
    A tal proposito, Natzu Nakajima, una danzatrice che appartiene alla prima generazione del Buto di Hijikata dice:
    “Il sistema di notazione di Hijikata non dev’essere compreso intellettualmente quanto piuttosto sentito nel campo del corpo. Le parole devono essere catturate dalle antenne ipersensibili del corpo. Le parole devono essere lette e ascoltate fisicamente, al contrario esiste il rischio che la notazione degeneri in una significazione piena di una qualche forma esterna e che la danza diventi una sorta di “forma vuota”.

    Le parole non esistono, in questo contesto, con il proposito di tracciare una forma o una figura, ne tantomeno per tradurre o veicolare i significati del linguaggio.

    Di solito leggiamo un “libro” con i nostri occhi, in questo caso leggiamo il “libro” con le nostre orecchie, i nostri capelli, il nostro naso, le nostre gambe, il nostro stomaco, così come con gli altri nostri organi …

    ELENA LA PUCA, Psicologa, danzatrice, arteterapeuta, Roma.


    BIBLIOGRAFIA
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    0TTAVIANI G., Sul Buto Culture Teatrali, 2/3, Roma 2000.
    SALERNO G., Suoni del corpo, Segni del cuore: La danza buto fra oriente e oc­cidente Costa Nolan, Milano 1999.