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Corpo sessuato amato temuto

    Quando Pina Nuzzo mi ha proposto di partecipare all’autoconvocazione del 13 giugno, portando un intervento che avesse come titolo “Corpo sessuato amato temuto”, ho accettato con piacere, suonava bene, in qualche modo mi vestiva bene! L’ho guardato? ed ho lasciato risuonare i suoi aggettivi.
    Sessuato mi richiama al senso del piacere, alla sessualità, al corpo come possibile fonte di piacere quando è per sé e, luogo di scambio di piacere quando in un incontro con un altro corpo avviene quella specialissima sintonia d’intenti.
    Poi lo sguardo scorre sulle due parole che seguono e lentamente si chiarisce (viene chiarita) il perché della contiguità dei due termini.
    Ho cominciato a guardare quel corpo come fossero due, ho visto il corpo che ama, i suoi gesti, le sue forme, la sua meravigliosa fragilità e ho visto il corpo che teme, il suo sguardo, le sue linee di tensione, le sue tante facce… mi sono commossa! Provate a chiudere gli occhi e ad immaginare anche voi questi due corpi! Riuscite a sentirli? Il piacere, il dolore, l’amore, la morte, così lontani, così vicini.
    E allora ho pensato al corpo in gravidanza, una delle possibili risposte a quel incontro d’intenti…Ho pensato al corpo di donna, quel corpo in metamorfosi, che si sottrae di qualcosa per fare spazio ad altro, che accoglie un altro, un corpo per due, un corpo doppio, convivenza corpo a corpo. Un corpo che danza la sua grave-danza… Non sapevo bene come avrei potuto trattare questi contenuti e così, come se le avessi chiamate silenziosamente, incontro due donne, Dulcinea alla mia sinistra e Maya alla mia destra.

    Dulcinea è all’ottavo mese di gravidanza, è strano vederla col pancione, è tanto che non la vedo, l’abbraccio e le chiedo come stà;. Ha deciso di partorire in casa, mi racconta di come sia bella l’esperienza che sta vivendo ma anche di quanto sia difficile… il corpo che cambia, sensazioni mai provate compaiono senza mediazioni, la pazienza che aveva prima rispetto a certe cose adesso sembra essere scomparsa in chissà quale luogo, il forte desiderio di nutrire lei stessa e la creatura che porta in grembo entra in conflitto con i corpi filiformi di donne nella sua stessa situazione che sembrano però mantenere quasi intatte le loro proporzioni. Come una ladra si nasconde a quegli occhi che la vogliono sempre uguale a sé stessa e nasconde il suo corpo nuovo con abiti larghi, per proteggerlo, insieme ai suoi bisogni che non sente di tradire né tanto meno di manipolare. Come un animale che protegge il suo piccolo, mi dice…Mi racconta di quel luogo intimo e delicato della sessualità dove incontra il suo uomo in maniera nuova e difficile. ”Perché nei corsi di preparazione al parto non si parla di sesso? – chiede – perché sembra quasi essere un tabù? Sì! È vero, aspetto un bambino, ma desidero tanto anche fare l’amore! Mi sembra uno spreco! Così tanta grazia…” Continua e mi svela un desiderio: vorrebbe danzarlo questo suo momento così speciale. Mi chiede di aiutarla a costruirne la sequenza narrativa; inutile dirvi che gioia poter accettare!


    Ci scambiamo delle idee e gradualmente cominciano a delinearsi i nuclei principali che la sua danza vorrebbe attraversare, quelli che desidera raccontare. Molte sfumature di quello che dice probabilmente mi sfuggono, non ho ancora vissuto un’esperienza come la sua e sono molto curiosa! E provo a dire la mia, quello che penso, quello che sento rispetto a quel suo corpo così bello, di una bellezza speciale, di una complessità particolare, c’è qualcosa di affascinante ed inquietante insieme.
    Si spoglia, per essere più comoda nel provare i suoi movimenti, la seguo con lo sguardo in quel accenno di danza, in quel suo rotolare sulla pancia; a tratti un po’ a disagio, rispettosa e grata, al tempo stesso, di quello svelamento d’intimità…I seni grandi e pieni, il pancione compatto, la morbidezza e la sicurezza nei movimenti nonostante il peso, mi compare un sorriso sul viso e penso ai canoni a volte assurdi e perversi di estetica, di bellezza, a quanto è stato “spezzettato” il corpo di donna, a volte svuotato, automatizzato e quanto, quel corpo che ho di fronte racconti piuttosto, la necessità che tutto comunichi, che tutto torni ad essere insieme, mai come in quel momento la necessità di essere un corpo organico! Dulcinea mostra un paio di calze autoreggenti, vorrebbe iniziare la sua danza indossando quegli oggetti di femmina, accessori di seduzione che adesso le sembra strano vedere sulle sue gambe, così gonfie e piene di cellulite, mi dice, mostrando ciò di cui sta parlando; è vero ma non vedo ragioni per cui dovrebbe essere diversamente!
    Prenditi tutto il tempo che vuoi Dulcinea! Prendi il tuo tempo per goderti questo gesto, per guardare e accarezzare le tue gambe, per adornarle ancora! È stato bello vederla sulla scena la sera dell’otto marzo alle prese con quell’azione, con quel tempo, un po’ impacciata ma decisa nell’indossare le sue calze, alle prese con quel desiderio, semplice, di provare a mettere insieme, come in un puzzle, i suoi “pezzi di donna” … sotto quegli occhi che adesso, dovranno saper aspettare, dovranno saper imparare a guardare!

    Qualche tempo dopo incontro Maya e con entusiasmo le racconto la scelta di Dulcinea di partorire in casa; mi dice che le sembra una scelta pericolosa, siamo nel duemila, perché non utilizzare le sicurezze che possono darci i luoghi e la tecnologia medica? Inizia così un dialogo serrato.
    “Da che mondo è mondo le donne hanno partorito anche senza gli ospedali! Le nostre nonne partorivano in casa, no?” Le dico.
    “Sì, ma si moriva di parto! Non pensi che quelle stesse donne avrebbero desiderato maggiori comodità e assistenza?” – mi contrappunta.
    “D’accordo! Ma fortunatamente oggi possiamo scegliere!”.
    “Sì, ma potrebbe succederti qualcosa, se ci sono complicazioni che fai? Ti rendi conto che potresti morire?”- continuava a ripetermi – “Se tu prendessi una decisione simile, mi sentirei in dovere di metterti in guardia!”
    “Va bene, dicevo – credo che rischierei e comunque non ci penso alla morte! altrimenti neanche deciderei di farlo un figlio e poi se succede qualcosa ti portano subito in ospedale!”
    “E poi, mi sembra assurdo questo atteggiamento per cui la donna si arroga il diritto di decidere solo perché è lei a portarlo dentro per nove mesi! e il suo compagno? Non ha diritto anche lui a decidere di non far correre rischi tali alla sua donna e a suo figlio?” – argomentava “Certo che sì! Chiaramente ne parlerei con lui chiedendogli di avere una parte attiva in tutto questo, di aiutarmi, di starmi vicino mentre sono lì intenta a partorire quello che sarà nostro figlio…”.
    La discussione si era fatta incalzante, la questione aveva sollevato emozioni e sentimenti che non mi aspettavo, lo spazio era diventato stretto, accaldato, un po’ soffocante, era come se stessimo combattendo per qualcosa…
    Non credo che tutte le donne debbano prendere una decisione come questa, che tra l’altro sento particolarmente vicina, ma la medicalizzazione della donna negli ultimi vent’anni è diventata, a mio avviso, vergognosa, generando un immaginario e delle pratiche che la miopia contemporanea riesce a considerare normali e di ordinaria amministrazione ma che ad un occhio un attimino più lucido, appaiono quanto meno figlie di una assurda logica!
    Vi sembra normale che una donna debba partorire su un lettino in una posizione che contravviene totalmente alle leggi di gravità?
    Comoda forse per chi deve aiutarla ma scomoda per sé; vi sembra naturale che la maggior parte dei parti oggi siano cesarei? Presunte necessità? Può darsi! E intanto questa pratica ha contribuito a rendere il corpo di donna sempre più un semplice contenitore che a tempo debito viene aperto e da cui viene estratto il “prodotto” creando una strana illusione: la vita e la sua nascita come qualcosa di troppo semplice, di semplificato, rendendo il processo sempre più esterno a colei che lo vive, con tante voci che le ronzano attorno, ognuna che tende ad affermare minuziosamente la propria opinione e lei che intanto si allontana sempre più da un sapere millenario, da una coscienza intima e intuitiva che saprebbe ancora vederla attrice di uno dei momenti più completi della vita; troppe mani in quella creazione, troppe luci su quello spazio che avrebbe bisogno, a mio avviso, di maggiore intimità e rispetto, troppo vocìo attorno a un luogo che, in certi momenti, avrebbe bisogno di un po’ di silenzio per ascoltare la voce dei suoi bisogni, messaggeri e consiglieri di cosa è meglio per lei in quel momento.
    Attenzione! Non voglio isolare la donna in un luogo di presunta emancipazione o di forzata autosufficienza, anzi, mai come in quel momento ha così bisogno di persone vicine. Semplicemente mi piacerebbe che avesse la possibilità di scegliere e soprattutto che avesse la possibilità di recuperare saperi che la macchina ingombrante e assordante della modernità ha coperto e reciso…
    Torno a casa, a piedi, per avere modo di chiarirmi un le idee e sento la testa pesante, qualcosa mi opprimeva e alitava dietro il collo; di tutto quello che ci eravamo dette, continuava a riecheggiarmi nelle orecchie una sola parola, quella della morte. Ero turbata e non è stato facile addormentarmi…
    Ho avuto paura. La mattina successiva mi sono svegliata con l’ultima immagine di un sogno: io che partorivo con dolore, mai avevo pensato che poteva essere così forte…
    La vita quotidiana ha continuato a scorrere, passa un qualche tempo e parlo ancora con Dulcinea, mi racconta dei preparativi per il “grande giorno”, aveva davanti a sé una lista di cose da fare preparata dalle ostetriche; era un po’ agitata e mi dice “ sai Elena, ho paura che durante il parto possa dire delle cose brutte, in particolare nei confronti del mio compagno, mentre lui è lì con me, sorrido e come se l’abbracciassi le racconto la storia delle ninne nanne.
    Lo sai che molte ninne nanne delle nostre nonne erano piene di cattive parole o di insulti? Mentre cullavano i loro piccoli, si lasciavano andare a momenti di sfogo e la cosa incredibile è che i piccoli si addormentavano placidamente, e sai perché?
    Perché ciò che li cullava non era il senso di ciò che veniva cantato, piuttosto il linguaggio del corpo delle loro madri che durante quello sfogo si faceva più morbido, le loro tensioni venivano meno e così, in quel rapporto corpo a corpo, il bambino poteva godere del sollievo della madre…
    È stata contenta di quella storia!
    Ho incontrato ancora anche Maya, per caso, e desideravo tornare sulla questione di quella sera, qualcosa era rimasto sospeso.
    Conosco Maya da tantissimo tempo eppure quel pomeriggio mi ha detto qualcosa che mi ha permesso di conoscerla di nuovo.
    “Sai Elena io non voglio avere figli, o meglio, non ne voglio fare!”
    “Non è un obbligo”, le dico.
    “Eppure alla mia età quando dico una cosa del genere la gente pensa che abbia un problema. Mi piacerebbe adottarne piuttosto, anche più di uno! Tutti mi dicono che va bene, ma almeno uno mio dovrei farlo. Perché mi chiedo? Un figlio è solo quello carnale?”.
    “Non credo, anzi penso che il desiderio di adottarne sia di grande valore.” le dico “Ci ho pensato tanto” – continua – “e penso di aver capito che differenza! un figlio è carnale proprio perché sei tu a farlo, ed è proprio questo il punto: non penso di volerlo fare, non so se potrei sopportare tutto quello che vuol dire… le guardi mai le pubblicità delle donne mamme? Perfette, curate, in forma e incredibilmente efficienti, come se nulla fosse successo! Sorrido e la rassicuro dicendole che sarebbe meglio non guardarle le pubblicità, quantomeno non prenderle troppo sul serio.
    Forse, ma in ogni caso, non so se sarei in grado di affrontare il continuo giudizio della gente, bisogna essere molto forti per questo. Ho già un rapporto difficile col mio corpo, faccio già tanta fatica a seguirlo nelle sue oscillazioni, immagina durante una gravidanza!” E in quel momento, dice qualcosa che mi colpisce, qualcosa che non avevo mai sentito, qualcosa a cui non avevo mai pensato…: “E poi sai, non so se potrei mai perdonargli tutto il dolore, la devastazione che il mio corpo ha dovuto subire per metterlo al mondo, non so se riuscirei mai a perdonarlo e quanto, in maniera più o meno inconsapevole gliela farei pagare…”
    Parole forti, ma anche cosi reali! Difficili da ascoltare, da accettare, ma la cui radice probabilmente alberga, in qualche luogo, in tutte noi, chissà…
    Ha detto quelle frasi con una tale chiarezza che è stato come se avesse aperto una finestra da cui non avevo mai guardato…
    Qualche tempo dopo il mio compagno mi segnala un articolo da “Il Manifesto” del12 maggio “Solo così si può essere madri” di Erri De Luca.
    Eccone un breve stralcio:
    “In sforzo partorirai figliª (Genesi/BereshÏt 3,16). Leggo così l’ebraico del vocabolo ´’etzev´. Qui non c’è la condanna al dolore, l’aumento punitivo della sofferenza dopo la trasgressione del frutto vietato e assaggiato lo stesso. La condanna al dolore è un’interpretazione delle traduzioni, Eva deve pagare per aver dato ad Adamo la conoscenza del bene e del male. Ma il prezzo è lo sforzo non supplemento di dolore.
    […] Ecco che con pochi utensili a disposizione, il testo originale in ebraico antico e una ricerca dei luoghi di apparizione e di uso di una parola certa, si può leggere un passo della scrittura sacra, stracarico di pesi e toglierne qualcuno. Per affetto nei confronti della lingua matrice e motrice del monoteismo, per entusiasmo del lettore, aggiungo la mia nota in margine alla gigantesca stesura delle traduzioni e dei commentari.
    Lo faccio sulle pagine di un giornale che domani sarà già scaduto, per non prendere troppo sul serio la mia intenzione di redimere un paio di sillabe antiche, condannate dalla tradizione. La donna continuerà ufficialmente a partorire con maggior dolore per il resto dei tempi. Per oggi, fino a dimenticarlo, può sapere che non le era stata imposta alcuna pena aggiunta, ma uno sforzo più intenso rispetto alle altre creature viventi. A lei che ha aperto gli occhi alla creatura umana spalancandone la conoscenza, spetta la necessaria distanza fisica dalle altre madri di natura, dalla loro agibilità elementare di sfornare la vita”.

    E mentre ringrazio Maya per avermi aperto un mondo e per avermi dato fiducia del fatto che potessi accoglierlo, Dulcinea per avermi permesso di partecipare in qualche modo alla sua danza ed insieme, per aver illuminato così due aspetti di quello stesso corpo, chiedo a voi: Come respira il vostro corpo sessuato amato temuto?


    Contributo all’assemblea nazionale dell’UDI-Unione Donne in Italia del 13 e 14 maggio del 2006 e pubblicato nel Bollettino dell’Associazione consultabile presso l’Archivio Centrale UDI –  archiviodigitale.udinazionale.org