Invidia e Gratitudine. La genesi di una danza
Il lavoro di ricerca arteterapeutica che vogliamo presentarvi nasce in occasione della Terza Edizione della Scuola Estiva della Differenza, organizzata dall’Università degli Studi di Lecce e in collaborazione con il Convento delle Benedettine e l’Università degli Studi di Roma Tre. Il tema proposto in questa edizione era: “Tra invidia e gratitudine: la cura e il conflitto”. A seguito dell’invito a partecipare pensammo di contribuire all’evento utilizzando un linguaggio artistico: la danza.
In un contesto in cui gli interventi sarebbero stati soprattutto veicolati dalle parole e in cui sarebbe prevalso, in qualche modo, il fare dell’intelletto, la sfida voleva essere quella di comunicare e riflettere contenuti importanti attraverso il fare del corpo come uno dei modi possibili; nello stesso tempo, facendo questa scelta il rischio poteva essere quello di dar adito ad un fraintendimento in cui la danza poteva essere considerata un semplice intrattenimento.
Ci è piaciuto rischiare! Il nostro desiderio era quello di portare la danza in un contesto nel quale di solito non compare; lì dove le parole, a volte, rischiano di allontanarsi dal vissuto da cui provengono e che loro stesse evocano.. Così… sono iniziati i lavori!
Il processo di lavoro
Il primo passo è stato guidato da due diversi riferimenti letterari: “Invidia e gratitudine” della psicoanalista Melanie Klein e la personificazione dell’Invidia tratta da “Le Metamorfosi” di Ovidio.
La rilettura dei testi ha stimolato in noi pensieri, sensazioni, memorie e libere associazioni che abbiamo lasciato emergere liberamente durante i primi incontri dedicati alla preparazione della danza; da
quel momento in poi è stato come attraversare uno spazio: momenti d’improvvisazione, d’idea-azione e di scoperta di nuove immagini si sono susseguiti e intrecciati.
I livelli su cui abbiamo lavorato sono stati fondamentalmente due: uno più astratto affidato al pensiero e alle immagini mentali, uno più concreto affidato al fare del corpo in cui quelle stesse immagini
prendevano forma e si sviluppavano nello spazio. Nella fase di passaggio da un livello all’altro, ci siamo accorte della distanza che può esserci tra quello che si pensa di fare e quello che invece si può fare, di quanto sia difficile incarnare un’idea, entrare col corpo in un’immagine. La modalità dell’ideazione e del fantasticare sembra non avere confini: l’immagine mentale può scorrere fluidamente senza
incontrare alcun intralcio; il percorso del fare col corpo è invece costellato di ostacoli: fastidi, tensioni, paure, insicurezze, dolori, in in una parola sola…limiti!… con i quali abbiamo deciso
di stare, che abbiamo scelto di esplorare…
Sulla base del concetto di postura come posizione esistenziale, preso a prestito dal modello psicofisiologico integrato della cattedra del prof. Vezio Ruggieri, il focus della ricerca si è concentrato
sulle quelle che abbiamo deciso di chiamare transizioni posturali, su tutto quello cioè che accade nel passaggio da un sentimento ad un altro, da uno luogo percettivo ad un altro, in questo caso dall’Invidia alla Gratitudine. Durante la preparazione della danza ci siamo avvicinate ai loro corpi immaginandone l’identità; ci siamo chieste esplorandoli, quali corpi avesse l’Invidia, quali la Gratitudine, quali forme
albergassero tra di loro…. La libertà di stare con l’esperienza vissuta in questi passaggi ha rappresentato una risorsa importante nel processo della danza e non solo; uno spazio “neutro” nel quale è stato
possibile temporaneamente lasciare sullo sfondo ogni forma di giudizio o ideologia e dove gli aspetti generalmente lasciati in ombra hanno potuto emergere.
Immaginando l’esperienza come un luogo totipotenziale, stare con ha significato per noi esplorarne i livelli, sperimentare i suoi tempi, relazionarsi ai suoi contenuti da diverse distanze o punti di vista.
Quale danza dunque?
Essere in un luogo, percepirne i contorni, gli odori, i sapori, seguirne il ritmo, affilare bene la ricettività di tutti i sensi e rispondere all’ambiente con l’intero organismo: questo per noi è il processo di una danza.
Più che l’esecuzione di una coreografia già data, la danza diventa uno spazio ed un tempo d’improvvisazione, intesa non certo come selvaggia o caotica espressione di sé, quanto piuttosto come ascolto e un racconto attento: l’esecuzione o l’espressione di un’invisibile percorso…
Nella danza si muove la possibilità di vivere tutto ciò che è presente in un luogo, ciò che conosciamo e di cui abbiamo memoria e ciò che invece appare estraneo o lontano dalla nostra esperienza.
Come danzatrici ci sorprendiamo spesso della memoria di cui il corpo è custode, una memoria che racconta la storia individuale e collettiva, che travalica confini spaziali e temporali. A volte succede di danzare aspetti che poi ritroviamo in un dipinto mai visto o in un libro mai letto. Durante la preparazione di “Invidia e Gratitudine”, per esempio, una di noi ha sentito il desiderio di sviluppare una forma apparentemente lontana dalla propria coscienza e dal proprio bagaglio di conoscenza e, più tardi, ci ha sorprese il fatto di ritrovare quel particolare in un dipinto di Pieter Bruegel (“L’invidia” incisione grafica, 1557).
“La mia danza è il segno di ciò che emerge dalle profondità del corpo. I gesti e i comportamenti vissuti ed osservati si raccolgono nel corpo e restano lì «come zattere su un fiume» poi, ad un certo punto,
premono per venire alla luce attraverso le braccia, le gambe, le mani, un’espressione del volto”. Tatsumi HijiKata, Alla base di questo pensiero, elaborato dal fondatore della danza butoh nella seconda metà del novecento, abbiamo rintracciato il concetto di protomentale introdotto da Bion e sviluppato dal professor Vezio Ruggieri, secondo cui il primitivo modo di funzionare della mente, sin dalla vita intrauterina, coincide con la sensorialità. Col procedere dello sviluppo queste esperienze sensoriali di base divengono oggetto di un processo di semantizzazione, rivestite cioè di un significato emotivo e psicologico che non perde mai completamente la sua radice corporea; ed è appunto a questa radice pre-semantica che il pensiero di Hijikata si riferisce e che nella danza ha la possibilità di emergere e di comunicarsi come esperienza che, semplicemente, “rappresenta sé stessa” e null’ altro.
Il corpo nella danza
Ognuno di noi è un luogo in cui contemporaneamente convivono diversi piani di realtà: quella fisica ed oggettiva, fatta di pelle, muscoli, organi interni, ossa, sangue e linfa; quella vissuta e soggettiva, collegata allo spettro emotivo delle nostre esperienze; quella legata agli aspetti cognitivi e al pensiero ed infine quella relazionale dove tutto questo comunica con il mondo esterno. Il nostro interesse è orientato in particolare a comprendere ed esplorare il come di quel luogo. La conoscenza esperienziale dei diversi livelli e della loro interrelazione può offrire, secondo noi, una possibilità di integrazione da cui nasce quel sentimento di esserci fondamentale per sperimentare la vita nella sua complessità, una base sicura da cui partire per attraversare i diversi aspetti della realtà, compresi quelli scomodi o spiacevoli, come nel caso dell’invidia, dove un sentimento comunemente considerato negativo si accoglie, viene ascoltato nelle sue ragioni, espresso nella sua forma e poi lasciato andare…
Il corpo inteso come luogo, si apre, si chiude, come nel processo respiratorio alcune cose entrano, altre vanno via e di questo passaggio rimane sempre una traccia che sedimenta e si trasforma in qualcos’altro, seguendo un’invisibile processo…
La questione della performance
Ma torniamo alla nostra esperienza di una danza tra le parole! Il convegno prevedeva tre giorni d’incontri e dibattiti e noi avremmo presentato la danza l’ultimo giorno a seguito della chiusura dei lavori.
Siamo arrivate a Lecce con un’idea della danza più o meno strutturata, con una sorta di coreografia già pronta, eppure, durante quei giorni di ascolto attento, abbiamo lasciato che la pelle della nostra
danza rimanesse permeabile e che il contenuto e la forma della danza potessero continuare ad arricchirsi e perché no, modificarsi! Le parole degli interventi risvegliavano in noi immaginari, sentimenti e
sensazioni che abbiamo scelto di far entrare nella trama della danza, lasciando che lo spazio della performance diventasse un corpo vivo che potesse trasformare e restituire con un linguaggio diverso, i
contenuti di quei giorni. La sensazione forte era che la maggior parte delle parole dette durante il convegno rimanesse sospesa, come se un’eccessiva intellettualizzazione dei temi trattati portasse l’invidia e la gratitudine fuori dal corpo e lontano dalle loro qualità emozionali, percettive: il canale verbale era diventato saturo!
Desideravamo creare, attraverso la danza, un luogo di compensazione perché le parole hanno il potere di dire qualcosa ma non riescono a dire tutto! Mentre i gesti, raccolti in una danza, provano a raccontare quei vuoti…
La danza di quel giorno ha rappresentato per noi, e anche per chi ha assistito, questa possibilità; abbiamo potuto rivivere e restituire, in quel luogo così suggestivo che era il monastero, i corpi vivi di
Invidia e Gratitudine, abbiamo potuto farci corpi cavi per raccontare le loro storie, abbiamo potuto indossare le loro pelli come fossero abiti… Come in una grande matrioska, i diversi livelli si abitavano a vicenda: quello dei nostri corpi e di chi partecipava come pubblico dentro quello della performance che a sua volta ri-sentiva di quello più allargato: lo spazio del monastero che ci conteneva tutti…
Insomma! quello che ci piace ricordare è che quella danza è stata molto di più di quella che avevamo preparato prima di arrivare al punto della performance, qualcosa di diverso, di più ricco, che ci ha sorprese, qualcosa che trascendeva, attraversandoci, noi stesse e che raccontava di qualcos’altro… Tra il pubblico ci sono state reazioni molto forti e allora abbiamo avuto la conferma che la danza fosse diventata davvero qualcosa di altro rispetto a noi e che, in qualche modo, ci fossimo concesse di danzare qualcosa che apparteneva a tutte loro e che come anche a quel luogo specialissimo che aveva accolto la nostra danza…
Su questa base noi ci muoviamo e lavoriamo da diversi anni, cercando di creare una pratica che oggi possiamo definire arteterapeutica e che possa in qualche modo rispondere al desiderio di stare meglio in un
mondo in cui è sempre più difficile relazionarsi e conoscersi, ma che nonostante tutto rimane sempre la nostra fonte d’ispirazione, speranza e gioia.
Delia Caridi
psicologa ad indirizzo clinico, danzatrice, arteterapeuta ad indirizzo psicofisiologico
Elena La Puca
psicologa ad indirizzo clinico, danzatrice, arteterapeuta ad indirizzo psicofisiologico
“Una danza tra le parole: Invidia e Gratitudine. La genesi di una danza”
Pubblicato in
Le Nuove Arti Terapie nel 2011
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